MY LIFE AS IMAGE CONSULTANT. Italian interview by Mattia Marzi/Rockol.it

Ambra in versione sadomaso, un’irriconoscibile Annie Lennox, Ramazzotti il borgataro e Madonna la businesswoman: parla lo stylist delle star.

Ambra in versione sadomaso, un'irriconoscibile Annie Lennox, Ramazzotti il borgataro e Madonna la businesswoman: parla lo stylist delle star
Avete visto la copertina del nuovo singolo di Marcella Bella, “Non mi basti più”? Capelli ricci e ribelli, rossetto rosso marcatissimo, sguardo provocante: sembra ringiovanita di quarant’anni. Il look della voce di “Montagne verdi” per il suo nuovo progetto discografico, prodotto da Mario Biondi, è curato da Cesare Zucca, stylist che nel corso della sua lunga carriera ha avuto modo di collaborare con star della musica italiana e internazionale. Di cose da raccontare ne ha parecchie, Zucca: partita da alcuni locali della Milano degli anni ’70 e ’80, la sua avventura nel mondo della musica (e dello spettacolo) lo ha portato addirittura a lavorare negli Stati Uniti, dove ha vissuto per diversi anni. Il suo motto? “L’arte di comandare sta nell’arte di delegare, ad attorniarsi del meglio senza temere che il meglio possa scavalcare qualcun altro”, risponde Zucca. Ma quanto conta l’immagine, oggi, per una popstar? Ne abbiamo parlato con lui.

Non è un caso che Marcella Bella abbia scelto proprio te come stylist per il suo nuovo progetto discografico: la vostra prima collaborazione, quella per il look di “Nell’aria”, risale a oltre trent’anni fa.
Ascoltai il disco, mi piacque molto. Cercai di eliminare il capello riccio, ma lei proprio non voleva saperne di tagliarlo. Così raccogliemmo i capelli e attaccammo alcuni ciuffetti che le davano un’atmosfera non dico punk, ma più nuova rispetto ai suoi precedenti lavori. Ora ha lavorato con Mario Biondi al suo nuovo album, davvero notevole, e mi ha voluto nuovamente al suo fianco.

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Ma andiamo con ordine: come cominciò questo tuo lungo viaggio nel mondo della musica e dello spettacolo?
Tutto ebbe inizio in tre discoteche molto in voga a Milano tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, Primadonna, Divina e No Ties. Non facevo il dj, ci lavoravo come pr, come organizzatore di feste. Presi a lavorare Claudio Cecchetto: era bravissimo a mixare, ma sul palco era una mummia, non diceva mezza parola e non intratteneva il pubblico. Ricordo che mi dovetti allontanare per qualche giorno e dissi a Cecchetto di provare a sciogliersi un po’, a intrattenere la folla. Quando tornai, lo trovai che era un’altra persona.

Nello stesso periodo lavoravi anche come ufficio stampa per la EMI italiana, per la quale incidevano – tra gli altri – Alan Sorrenti, Francesco Guccini e poi, verso la fine degli anni ’70, anche Franco Battiato e Pino Daniele. Cosa ricordi di quel periodo?
Battiato arrivò in EMI dopo una serie di album sperimentali. Curiosamente, avevo suonato insieme a lui all’inizio della sua carriera: facevamo parte del complesso che accompagnava Ombretta Colli, la moglie di Giorgio Gaber. Andai in sala d’incisione quando Battiato registrò insieme ad Alice “Chan-son egocentrique” e fu lì che capii da dove venivano fuori i suoi testi: totale improvvisazione con grande senso dell’humour. Quanto a Pino Daniele, ricordo che quando la EMI lo mise sotto contratto chiesero a me di fargli qualche foto, perché non avevano budget.

Poi arrivò la prima collaborazione come stylist, quella con Alan Sorrenti.
Alla EMI avevano un nuovo artista da riproporre, Alan Sorrenti, appunto, che veniva da alcuni dischi prog rock e che aveva appena inciso “Figli delle stelle”: si ripresentava sulle scene con sonorità diverse, decisamente disco. Chiesero a me di curare la sua immagine, di rimetterlo in ordine. Per prima cosa, via i capelli lunghi. Poi, gli abiti: in quel periodo, era il 1977, Gianni Versace aveva realizzato la prima collezione da uomo, tutto bianco e Superman. Era perfetta. Presi il portfolio con le foto e andai a Roma, a farle visionare ai miei capi della EMI, che bocciarono in totale il progetto: “Troppo disco, troppo gay”, mi dissero. Ma Alan si sentiva a suo agio con quella nuova immagine e quindi, alla fine, venne scelto proprio il mio look. “Figli delle stelle” andò al primo posto in classifica: non che il merito fosse del look, ma in qualche modo contribuì al successo del singolo. Così mi licenziai dalla EMI e cominciai a curare l’immagine degli artisti.
Poco tempo dopo ti affidarono il look di Kate Bush per la sua partecipazione al Festivalbar del 1978 con “Wuthering heights”,come fu lavorare con lei?
Quel singolo rimase nel cassetto di quello che si occupava del repertorio straniero della EMI Italiana per cinque o sei mesi, pensavano che fosse una canzone troppo strana. Incontrai Kate Bush a Nizza, lei stava registrando nello stesso studio in cui i Rolling Stones avevano registrato “Exile on Main Street”. Mi diede carta bianca: l’arte di comandare sta nell’arte di delegare, appunto. Andai a New York ad acquistare qualche maschera, poi a Milano feci realizzare alcuni costumi da samurai. Chiesi agli scenografi della Scala di costruire un grande aquilone. Il giorno dell’esibizione all’Arena di Verona, Kate arrivò con molto ritardo. In quel periodo era seguita da Hilary Walker, ex manager di Paul McCartney. La trascinai in camerino per darle una sistemata. La coreografia prevedeva che lei si nascondesse dietro l’aquilone e che ad un certo punto i due samurai girassero l’aquilone. Ma nessuno disse a Kate che l’Arena era gremita, quella sera, e quando l’aquilone si girò lei rimase esterrefatta

 Nel 1981 fu la volta di Alice, in gara al Festival di Sanremo con “Per Elisa”.
Voleva un’immagine forte, aggressiva, alternativa, un po’ maschile. Ci trovammo in perfetta armonia: si trattò semplicemente di mettere in pratica le idee che giravano già nella sua testa. Non si aspettava assolutamente di vincere quell’edizione del Festival e quando le comunicarono che sarebbe dovuta tornare sul palco per cantare la sua canzone, non tirò fuori dalla borsa rossetto o altri trucchi.

Con Loredana Berté, invece, collaborasti a più riprese: prima per l’album “Jazz” del 1983, poi per “Savoir faire” del 1984 e, infine, per “Carioca” del 1985. Tutti quelli che lavorarono con lei raccontano che Loredana aveva un carattere non facile. Confermi?
Quella con Loredana fu la collaborazione più difficile, ma anche la più bella. Ci furono litigi, ma anche momenti molto intensi. Ho mille ricordi di quel periodo. Ed è vero che che era un personaggio con cui non era così semplice lavorare. Loredana, che tendenzialmente indossava sempre jeans e magliette a maniche corte, per “Il mare d’inverno” scelse un look post-atomico, come lo chiamava lei, a brandelli. Per “Carioca”, invece, preferì un’immagine più estiva. Era sempre un gradino verso il futuro, estremamente attenta alla contemporaneità, a quello che funzionava in quel preciso momento. Il primo lavoro che fece senza di me fu il Festival di Sanremo con il pancione finto, quello di “Re”. L’idea venne ripresa da Lady Gaga, è vero, ma prima di Loredana lo aveva già fatto Barbra Streisand in un film.

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Restando sempre in Italia: nel 1984 curasti il look di Eros Ramazzotti, che quell’anno cercava di farsi conoscere dal grande pubblico partecipando, tra le Nuove Proposte, al Festival di Sanremo. Come ti arrivò la proposta di collaborare con lui?
Mi chiamò il suo produttore, Renato Brioschi, ex membro dei Profeti: “Ho un giovane che va a Sanremo, ma non sono molto sicuro del look. Puoi dargli un’occhiata?”, mi chiese. Era domenica, Ramazzotti si sarebbe esibito quattro giorni dopo, il giovedì. Mi arrivò a casa questo ragazzo con i riccioloni, romano, un po’ borgataro, aveva appena finito di giocare a pallone. Gli dissi: “Devi essere il nuovo James Dean”. Pensavo a “I ragazzi della 56esima strada”, jeans e capelli rockabilly. Trovai un parrucchiere disponibile di lunedì, un amico, e mi procurai un paio di magliette, una riciclata da Alan Sorrenti. Ramazzotti partì per Sanremo e vinse con “Terra promessa”. Lo rividi qualche anno dopo a Miami, dove abitavo. Aveva in programma un concerto a Milano con Tina Turner e mi invitò a fargli da direttore artistico.Dopo le tante collaborazioni con artisti italiani, poi, arrivarono quelle con le star internazionali: su tutte, Madonna. Come arrivasti a lei?
Sognavo di lavorare con lei da tempo e capii che se fossi rimasto a lavorare a Milano non sarebbe mai successo. Così, feci le valigie e volai a Los Angeles. Condividevo l’appartamento con Bob Esty, arrangiatore e produttore che all’epoca lavorava con Donna Summer e Giorgio Moroder. Cominciai a lavorare con alcuni clienti e un giorno mi chiamarono per dirmi che Madonna, reduce dall’album “True blue”, aveva visto i miei lavori e voleva che collaborassi con lei per un book fotografico. Fu relativamente semplice lavorare con Madonna: era precisissima e molto pignola. Sapeva di avere un grande potere e voleva dominarlo: una grande businesswoman.

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Della collaborazione con Annie Lennox, invece, cosa ricordi?
Avevo due abiti, uno di Versace e l’altro di Missoni. Le proposi di fare un gioco:  la regina di picche. capelli neri e abito rosso. A riguardare quelle foto, oggi, appare irriconoscibile. Qualche tempo dopo venne in Italia insieme agli Eurythmics, per un concerto al Palatrussardi di Milano. Andai in albergo e lasciai un regalo nella stanza del suo manager. Due o tre giorni dopo mi lasciò un messaggio nella segreteria del telefono: “Hi, this is Annie… Annie Lennox. Ho ricevuto il tuo regalo, vieni al concerto: ti faccio trovare due pass”. Mi aveva dato un pass per tutte le aree. Andai in camerino e scoprii che aveva fatto registrare tutto il concerto per ascoltare com’era venuto, a livello di suono. La nostra collaborazione finì perché il suo manager, geloso, tagliò i rapporti.

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Una collaborazione che non ti ha dato le soddisfazioni che ti aspettavi, invece?

 

Ambra Angiolini, la più grande disillusione artistica. C’era un servizio fotografico da fare, le mandai l’idea: i sette vizi capitali. Un po’ sexy e sadomaso: Ambra, che verso la metà degli anni ’90 faceva un programma in tv insieme ai ballerini Luca Tommassini e Kevin Stea, Qualche giorno prima le spiegai il look: avrebbe avuto un sigaro in bocca e due guanti di pelle nera lucida. Ambra entusiasta. Eravamo nello studio che avevo affittato per il set, Ambra era nel suo camerino. Dopo un po’ la mamma uscì e mi disse: “Non si trova con questo trucco, non si sente a suo agio. Le è preso un crampo allo stomaco”. Evidentemente una pessima scusa per non lavorare e professionalità zero.
Chiusi tutto, pagai studio e assistenti e fermai la produzione.

L’immagine, in musica, è legata in particolar modo ai videoclip: negli anni ’80 e ’90, a volte, il video era più importante della canzone. Oggi è ancora così, secondo te?
Assolutamente sì, considerando anche che i video di oggi possono vantare del supporto di internet, a differenza di quelli degli anni ’80 e ’90. Quando mi paragonano i video di Lady Gaga e quelli di Madonna rispondo sempre che Madonna non aveva internet. Prima, però, c’era un’attenzione diversa: si viveva l’attesa del videoclip.

Ma quanto conta il look per una popstar, oggi?
Conta eccome. Tra l’altro, oggi è molto diffuso anche l’anti-look: penso a personaggi come LP, che si presenta senza trucco, magliettina e jeans. Anche quello di Sia è un anti-look, perché non vuole farsi vedere. Dietro, però c’è una grande idea di marketing. Anche se sembra che dietro non ci sia uno studio, anche questi non-look fanno tendenza.

Le varie popstar internazionali contemporanee, penso a Lady Gaga, Katy Perry, Adele, Beyoncé e Rihanna, secondo te fanno un buon uso del look ?
Sì, anche se certi look sono meno riusciti di altri. Katy Perry sorprende ogni volta, Beyoncé fa grandi ricerche sulla sua immagine.

Certe loro scelte hanno fatto discutere: ricordi il vestito di carne che Lady Gaga ha indossato qualche anno fa agli MTV Video Awards?
Me lo ricordo benissimo. E ricordo anche quando si presentò alla cerimonia dei Grammy dentro l’uovo, tipo un feto. Lady Gaga, comunque, è una grande. Anche lei, ad esempio, ora che si è avvicinata al country ha scelto un non-look.

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Con chi ti piacerebbe lavorare, in futuro?
Del panorama italiano l’unico artista che con cui mi piacerebbe collaborare è Raphael Gualazzi: mi è piaciuta molto la sua “L’estate di John Wayne”, trovo che il video sia meraviglioso, sembra girato dal nipote di Fellini. Quanto agli artisti internazionali: sarebbe stato molto bello lavorare con Amy Winehouse.di Mattia Marzi

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